
#CONOSCIAMO SILVIA VECCHINI

Silvia Vecchini nata a Perugia, Laureata in Lettere Moderne con una tesi sull’opera poetica di Primo Levi, ha conseguito il Diploma di Alta Specializzazione in Scienze Religiose.
Dal 2000 scrive per bambini e ragazzi: libri tattili, storie illustrate per i più piccoli, prime letture, libri che raccontano opere d’arte, romanzi per ragazzi, raccolte di poesie e fumetti. Ha curato progetti editoriali, collane, testi scolastici per numerose case editrici. Pubblica con diverse case editrici (Topipittori, Mondadori, Giunti, San Paolo, Edizioni Corsare, Rueballu, Lapis, Bao, Tunué, Millegru…). Molti dei suoi libri sono stati tradotti (Usa, Francia, Spagna, Russia, Cina, Polonia, Turchia, Corea del Sud e in altri paesi).
Progetta percorsi per le scuole, incontra bambini e ragazzi in biblioteca e nelle librerie per letture e laboratori di scrittura. Tiene corsi di formazione per insegnanti e conduce gruppi di scrittura per adulti.
Entrevista: @Urdimbrediciones
Imágenes: @Silvia Vecchini – @case editrici
L’osservazione è una costante nel tuo universo creativo. Come definisci i tuoi personaggi, le loro voci e in generale le tematiche dei tuoi libri?
Parto da voci che si esprimono in versi. Anche quando i personaggi saranno quelli di una storia. È una specie di eccedenza della realtà, parole cose incontri con una temperatura molto più alta della media, qualcosa che forma un nodo, un intreccio con miei esperienze ricordi o desideri. Si fecondano a vicenda, nasce un piccolo seme ad alta intensità energetica che si ferma tra i miei pensieri e ci fa nido. Una specie di uovo che covo per tutto il tempo che serve, finché non avverto che sono pronta a raccontare qualcosa. A livello pratico, parto da piccoli taccuini in cui appunto una voce, un dialogo, un evento che mi colpisce e mi interroga. I temi non sono così importanti in prima battuta, nel senso che non seguo delle tematiche, non sono quelle che determinano la scelta di raccontare, scrivere. E il contrario. Dopo che ho scritto, o mentre sto scrivendo, mi accorgo che quella domanda è per me importante, interessante, ha attratto a tal punto la mia attenzione da dovermi fermare e pian piano il mio pensiero si esplicita in quello che scrivo. Lo scopro anch’io così. E scopro che le cose che mi stanno a cuore hanno spesso a che fare col rapporto silenzio-parola, la voce delle cose piccole, la possibilità di esprimersi, trovare il proprio posto e la propria voce, la crescita, il cambiamento, l’identità.



Lavorando con l’infanzia, i ricordi, il condividere con i tuoi lettori, andare a trovarli; ti ha portato a creare diversi incontri, formazione e laboratori di scrittura, ideando diversi esercizi (collage, sassi, poesia visiva) ¿Com’è lavorare mettendo al centro la parola?
È l’unica cosa che ho sempre desiderato! Ho iniziato a scrivere da bambina e non sapevo neppure chi o cosa fosse uno scrittore. Ma avevo sentito la forza e la bellezza delle parole e desideravo che le parole potessero farmi compagnia il più a lungo possibile. Non solo quando la voce della poesia mi visitava e neppure soltanto leggendo. Ben presto ho iniziato a desiderare di rimanere attorno alle parole in modo creativo, indagare che cosa ci fa scrivere, quali sono le ragioni profonde che ci guidano, che cosa c’è nella parola di così speciale, che rapporto ha la ricerca della scrittura con l’identità. Mi piace scrivere con i bambini, con gli adolescenti, con gli adulti. In ogni età che scrive le sue parole, trovo incredibili tesori.



Ricordi qualche scena o un libro che ti è stato letto da bambina e che è stato decisivo per la tua relazione con i libri e con la scrittura?
Ricordo in particolare un libro di fiabe che ho ancora oggi. Non era particolarmente bello ma per me è stata la porta per la lettura e per le storie. L’intensità, il carattere magico della parola, l’accadere di eventi da cui dipendeva morte o vita, l’intelligenza dei piccoli, degli scartati, il mistero, il ruolo degli animali e di tutto quello che normalmente non aveva voce, le trasformazioni e la ricerca del proprio valore e di un’identità segreta. E un mondo antico che mi parlava delle generazioni passate ed era simile a quello dei miei nonni, qui in campagna, vicino al lago Trasimeno dove sono nata e ho sempre vissuto. Durante l’infanzia, sentivo come se le fiabe mi raccontassero la vera realtà, una voce che sapeva andare oltre le apparenze a nominare cose e forze invisibili, una voce che non aveva paura di nominare il pericolo, il rischio, il buio. Ho scritto una raccolta di poesie dedicate alle fiabe (In mezzo alla fiaba, Topipittori, 2015) ma la lettura delle fiabe ha impresso un’impronta decisiva e profonda che riguarda in generale il mio modo di sentire le parole. Il fatto di essere rimasta negli stessi luoghi della mia infanzia e adolescenza ha per me un peso importante. È vivere in un luogo stratificato, in cui i piani si confondono continuamente e posso accedere, quasi scivolare, con facilità verso ricordi esperienze vissuti (ma anche desideri possibilità aperture come se tuttodovesse ancora accadere) rimanendo in contatto con una realtà altra, passata e presente insieme, viva e futura. Scrivere per bambini e ragazzi mi è possibile anche per questo.
“Fiato Sospeso” (Tunuè, 2011), è un graphic novel vincitore del premio Boscarato e Orbil Balloon 2013 come miglior fumetto per bambini e ragazzi, dove hai lavorato insieme a Antonio “Sualzo” Vincenti. In “Le parole possono tutto” (Il Castoro, 2021), siete tornati a lavorare insieme, come è nato questo nuovo progetto?
Dal desiderio di raccontare una storia di crescita che somigliasse a una nascita, un inizio che non si dà da sé ma chiede una partecipazione, un’intenzione, un’energia da attingere in profondità.
Siamo molto attratti dall’adolescenza, età di passaggio e trasformazione, perché pensiamo che parli di tutte le volte che diventa urgente cambiare, dello spaesamento ma anche dell’opportunità che questo ci può offrire. In questo fumetto ha un ruolo importante l’alfabeto ebraico con i suoi significati e le sue storie. E, ancora una volta, la parola è al centro. Nella lingua ebraica “davar” è “parola” ma anche “cosa, azione, evento”. La parola genera e fa accadere, crea. Come nella poesia.
Abbiamo visto un’immagine nel tuo feed di IG, dove c’è una piccola noce con dentro piccoli libri, in cui inviti a scrivere, e metti in evidenza il potere delle parole e la loro importanza nella relazione con l’altro. ¿Come fai a insegnare la scrittura autobiografica ai docenti? ¿Come ispiri le persone a scrivere, leggere?
Mi piace moltissimo scrivere insieme agli altri! I miei laboratori non sono veri e propri corsi di scrittura ma occasioni per trovarsi attorno alle parole, come se le parole fossero un fuoco che ci scalda, invita a raccontare storie e a raccontarci, ci permette di vedere il volto degli altri e con la sua luce mutevole ci ricorda che siamo in trasformazione e che in questa trasformazione c’è una buona energia.
Per questo mi piace condividere piccole illuminazioni. Utilizzo spunti sempre nuovi perché la meraviglia è una chiave magica per entrare in contatto con le parole. Ma non solo. Stupirsi, meravigliarsi, sentirsi toccati da una parola, un esercizio, un oggetto, il contatto con alcuni materiali naturali, può sbloccare alcune rigidità e darci la leggerezza e il coraggio di provare una nuova andatura e un passo più avventuroso.
L’ultimo laboratorio è un laboratorio diffuso… Ho scritto 30 diversi inviti alla scrittura e li ho copiati, uno per uno, in 30 minuscoli libri di poche pagine cucite a mano. Poi li ho nascosti in 30 noci. Queste piccole noci viaggiano grazie a una libreria del cuore (Spazio Libri La Cornice a Cantù). Le persone pescano di persona una piccola noce o scrivono alla libreria per averla e dedicarsi a un momento di scrittura. Poi mi scrivono e mi danno notizia di come è andata, mi mandano testi e impressioni. Nei mesi passati lontani, chiusi, separati dagli altri, abbiamo forse sentito maggiormente la necessità di una parola viva, vera, capace di metterci in comunicazione profonda con noi stessi e con gli altri.
Non è così facile farlo, trovare queste parole. Le parole sono consumate, tradite, trascurate. Per ritrovarle occorre una capacità di ascolto che possiamo aver perso o dimenticato. Leggo spesso una poesia di Chandra Livia Candiani, Mappa per l’ascolto: “… Accosta all’orecchio il vuoto/fecondo della mano,/vuoto con vuoto./ Ripiega i pensieri /fino a ricevile in pieno/ petto risonante/ le parole in boccio./ Per ascoltare bisogna aver fame/ e anche sete,/sete che sia tutt’uno col deserto,/fame che è pezzetto di pane in tasca/e briciole per chiamare i voli,/perché è in volo che arriva il senso/e non rifacendo il cammino a ritroso,/visto che il sentiero,/anche quando è il medesimo, non è mai lo stesso/dell’andata…”.
Il piccolo lavoro che faccio nei laboratori è quello di appoggiare delle briciole sul tavolo comune della nostra scrittura e aspettare che in volo arrivino le parole.



Quali sono i tuoi poeti o scrittori preferiti, di cui non ne puoi fare a meno, che hai sempre bisogno di leggere? E a quali altre dimensioni artistiche ti rivolgi quando cerchi ispirazione?
Chandra Livia Candiani dalla quale ho preso in prestito un verso da lei tradotto dal poeta Rumi “Una frescura al centro del petto” per il titolo di un mio saggio su albi illustrati e dimensione interiore/spirituale dei bambini. Il suo sguardo sulla parola e sull’infanzia è per me fondamentale.
Altre voci care a cui torno sempre sono quelle di Mariangela Gualtieri, Vivian Lamarque, Agi Mishol o Moja Kafh, Wislawa Szymborska, Sylvia Plath, Janet Frame, Antonia Pozzi, Emily Dickinson… Mi piace nominare poete perché credo ci sia un grande bisogno di ascoltare la loro voce.
Abbiamo visto che le parole sono per te come un fuoco capace di riunire idee, persone, sensazioni, una somma di errori, ¿Com’è stata l’esperienza di creare “Se la poesia è un filo” insieme a tua madre?
È stato un modo di stare vicine in un momento pesante, quello del primo e più duro lockdown. Non potevamo frequentarci e allora ho pensato un modo di incontrarci sul “fare”. Ho riflettuto sulla passione di mia madre per i fili, i filati. Per il loro intreccio nella lavorazione a ferri ma anche per quell’arte ancora più sottile del ricamo. Tutte cose che io non so fare! Per ricamare c’è bisogno di una concentrazione assoluta eppure è un momento in cui i pensieri si alleggeriscono e la mente può riposare e divagare. Per ricamare c’è bisogno di luce e di silenzio. L’ago entra nel punto esatto, il filo tiene insieme. Ho pensato che potevamo incontrarci in queste cose. Anche per scrivere è così. Luce sulla parola e sulle sue profondità, precisione ed esattezza, silenzio e attenzione ma anche divagazioni, incontri improvvisi e non premeditati. E un senso leggerezza e liberazione, anche quando si scrivono cose difficili. Forse da mia madre ho ereditato questa possibilità di guardare con attenzione e tenere insieme.
Se la poesia è un filo…
Sopra, sotto
la parola cuce
il dentro e il fuori
la punta dell’ago
è l’attenzione.



Quali dei tuoi libri metteresti in relazione con questi concetti: infanzia, arte, solitudine, amicizia e casa?
Di certo la raccolta di versi intitolata “Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno” (Topipittori, 2014) ma anche “C’è questo in me” (Topipittori, 2019), un’autobiografia d’infanzia in cui ci sono tutte queste cose… tranne l’arte. Da bambina non ho avuto grandi occasioni per visitare musei, mostre, non avevo molti libri, non andavo al cinema o a teatro. La mia infanzia è stata immersa nella natura e la bellezza che conoscevo veniva da lì. L’amicizia, ma anche la solitudine, il silenzio, il segreto che circondava ogni cosa hanno preparato un terreno che potesse accogliere le parole.
Un libro che parla di infanzia, casa, solitudine e anche arte è invece “In solitaria parte” (Rueballu, 2017), un libro sugli anni di formazione di uno straordinario poeta, Giacomo Leopardi. Ho pensato di ripercorrere il tempo che trascorse nella casa della famiglia a Recanati, cercando di cogliere come suggestioni dell’ambiente si ritrovassero nella sua scrittura. Suoni, visioni, scorci, esperienze dell’infanzia e della giovinezza, stanza per stanza, anno dopo anno, andavano a depositarsi nei suoi versi e nel suo pensiero in continua trasformazione.
Qual è stata la cosa più difficile da superare in questi tempi di Pandemia? Potresti raccontarci com’è stato convivere i tuoi workshop online?
È stato molto interessante tenere i laboratori online e verificare che nonostante la distanza, gli schermi, la stanchezza, le difficoltà, la poesia faceva il proprio lavoro. Qualcosa c’era. Tra di noi, nel gruppo, una brace accesa mandava il proprio bagliore. Erano le parole.
La cosa più difficile era chiudere gli incontri con un click mentre desideravo rimanere, intrattenermi, fare due chiacchiere fuori dal laboratorio stare insieme con leggerezza e permettere a tutte le emozioni sbocciate di liberarsi e poi decantare con naturalezza.
Hai qualche novità che vuoi condividere con i nostri lettori?
Una in particolare! Il nostro libro «21 días» tradotto in Spagna e uscito in questi giorni per la casa editrice Maeva. In Francia è entrato nella bella selezione ufficiale del Prix Unicef de la Littérature Jeunesse 2021 che aveva come tema «Sul filo delle emozioni». È un graphic novel che prova a raccontare la domanda di verità che c’è dentro l’adolescenza, il desiderio di conoscere anche le cose difficili e la possibilità che le parole possano illuminare i lati oscuri e poi liberarci. Sualzo ed io ci auguriamo che incontri tanti lettori!
Noi comprendiamo quello che è diverso come tutto quello che sembra diverso dalla nostra realtà, dal nostro ambiente. Tu invece, come concepisci quello che è diverso?
Nell’ultimo anno ho accompagnato un libro per me molto importante dal titolo “Prima che sia notte” (Bompiani, 2020) in cui racconto la storia di Carlo e Emma, due miei giovanissimi amici. È la storia di due fratelli. Per me, straordinari. Carlo, un ragazzino sordocieco, ed Emma, sua sorella, utilizzando la Lis (Lingua dei segni italiana). Ma Carlo utilizza anche tante altre forme di comunicazione tra le quali girare e poi montare dei video. Possiamo dire che il modo di comunicare di Carlo è diverso? Direi che, finché non trova qualcuno che è in grado di mettersi in comunicazione con lui, nel tempo che intercorre, il modo di comunicare di Carlo è intanto una domanda. Un appello, un segno, una presenza che chiede di riformulare il modo di pensare la comunicazione e il linguaggio. Mi sembra che nelle differenze ci sia una domanda per me, una domanda che mi riguarda. E dunque una grande occasione di conoscere per la quale sono grata.
Come nell’albo illustrato “Telefonata con il pesce” (Topipittori, 2017) dove una bambina cerca la soluzione a quello che a tutti sembra un autentico mistero. Un bambino che anche se potrebbe farlo, non parla. Riuscirà a mettersi in contatto con lui quando anche lei avrà imparato qualcosa. È questo scambio che mi interessa.
E sulle sue reti sociali: